MANDRAGOLA!
La fine giustifica i mezzi.
La fine giustifica i mezzi.
Anno II - Numero 8
Dicembre 2012
LA CLASSE OPERAIA ANDRA' PURE IN PARADISO, MA PER RISOLLEVARE IL TEATRO NON BASTA AVERE VOLONTE'!!!
La rivista che non puoi non avere se non hai buon senso!
Senza una pagina di pubblicità che non sia la nostra!!
Già un cult con uscite a caso!!!
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IL RITORNO DEI MAESTRI VIVENTI
Intervista ad Anton Cechov
- Lei è un classico, come Shakespeare. Come affronta questo
peso?
Con una tazza di the.
- Ecco, il the. Perché è così importante il the nelle sue
commedie?
Perché in Russia non
si fa altro che bere the
- A dire il vero in Russia non si fa altro che bere vodka.
Non ha mai pensato che avrebbe potuto mettere quelle bevanda al centro delle
sue commedie?
La vodka è la bevanda
della gente comune, non degli aristocratici
- Gli aristocratici non la bevono?
Sì, ma di nascosto,
per non fare brutte figure! La colpa è di Stanislavskij!
- Come mai?
Con quella storia
dell’immedesimazione, se mettevo la vodka, si poteva già chiudere il sipario dopo
il primo atto! Così ho messo il the, ma con il the ci vuole l’aristocrazia, non
i contadini delle isbe!
- Reggono così poco l’alcool i Russi?
No, è che però poi si
mettono a cantare e non seguono la storia!
- Non ha mai pensato di parlare anche di loro, della gente
comune?
No, la gente comune
non ha vite teatralmente interessanti. La gente comune non ha tempo da perdere.
Gli aristocratici sì! Il teatro è per chi ha del tempo da perdere.
- A proposito di Stanislavskij, è vero che lei si arrabbiò
con lui alla prima delle Tre Sorelle perché
gli attori recitavano troppo drammaticamente?
Certo! Io ho scritto
dei vaudeville!
- Mi perdoni, ma quando si dice vaudeville si pensa a Feydeau: alberghi equivoci, amanti e corna,
borghesi vanitosi, gravidanze isteriche. Il Gabbiano
parla di un’attrice che non ce la fa e lascia uno scrittore che per questo si
ammazza. Dove c’è da ridere?
All’inizio si ride
molto!
- La pièce comincia con le battute: “perché
vesti di nero?”, “È il lutto della mia vita!”.
È humour nero.
- The, humour nero…
Non è che lei pensava anche al mercato inglese?
Ma nemmeno per sogno!
- Un’ultima domanda: lei è comunista?
Sono medico.
Dopo il finto rapimento, la verità sulla sua improvvisa scomparsa
IL TEATRO (SI) OCCUPA!
Una scelta dettata dal senso di rivalsa e dal desiderio di scardinare certi vecchi meccanismi.
Come avete potuto leggere nei
numeri scorsi, il rapimento del Teatro non aveva alcun fondamento e, come
volevasi dimostrare, nessuno aveva interesse a sequestrare un personaggio
difficile da piazzare nel mercato dei riscatti. Si trattava dunque di una fuga
legata a motivi personali, riconducibile forse a una forma depressiva che
avrebbe colpito il Teatro negli ultimi tempi. Sintomo bizzarro per uno da
sempre abituato a vivere in situazioni al limite dell’incertezza. Ragion per
cui il motivo potrebbe essere l’esatto contrario.
Che lo si voglia o no, la scena nazionale
si è imborghesita parecchio: finito l’abbrivio rivoluzionario post-sessantotto,
con il Teatro impegnato nella protesta – e quindi a forgiare i maestri di oggi
–, la situazione si è dapprima alleggerita con i famigerati anni ottanta e in
seguito si è “seduta” ad ascoltare chi nel frattempo, volente o nolente, era
salito in cattedra.
E il Teatro?
Forse non ha gradito la
narrazione come alternativa all’impegno civile del Livin’ e la satira cattiva di
Mistero Buffo, o l’avanguardia della “voce orchestra” e della “macchina
attoriale” di Carmelo Bene. Fatto sta che ormai è il posto di lavoro a stargli
stretto, con i suoi barocchismi burocratici e i suoi percorsi creativi che
somigliano a una partita di monopoli. Ecco perché, grazie al movimento di
precari nato con la crisi, il Teatro ha ripreso il gusto di far sentire la sua
voce. C’è chi occupa, chi chiede di sottoscrivere manifesti di lotta dura senza
paura – ma almeno con la diaria –, e chi va in giro a recitare pezzi comici in
cui sberleffa un po’ tutti: la televisione, gli artisti impegnati, ovviamente gli
altri comici idioti – soliti e non –, l’istituzione teatrale con i suoi
provincialismi e mediocrità. A margine, però, c’è anche chi si interroga se non
sia il caso di abbandonare tutto e farsi una famiglia e imborghesirsi
definitivamente e quindi anche socialmente: del resto, la formula è vincente,
dato che il pubblico scambia il (finto) malessere esistenziale per (vero)
impegno civile.
Entusiasmo e depressione. Ecco la
nuovissima cura per il Teatro. Sipario.
Paolo Hays
PREMIO BELLAMERDRA
Il premio che tutti vogliono ma non tutti hanno
Questa volta il premio bellamerdra lo diamo all’autore
dell’articolo precedente – e ovviamente a tutti quelli che la pensano come lui.
Un ritorno in così scarso stile della dannazione romantica dell’artista genio
sofferente e incompreso – accompagnata
da una buona dose di nostalgia in salsa pop – è proprio quello che
aspettavamo da tempo.
Bene, bravo, bis! Grazie per averci rivelato che con la
crisi il Teatro è tornato a far sentire la sua voce. Stavamo rischiando di
diventare sordi, circondati da così tanto silenzio. Finalmente anche le nuove
generazioni sono tornate a far sentire la loro voce. Poverine: oppresse dai
soliti vecchi tromboni, dai dinosauri che non vogliono estinguersi, dai registi
che fanno recitare sempre i soliti, da quelli che non hanno studiato
recitazione ma basta un passaggio in tv perché poi usurpino anche il teatro,
dai bandi stilati ad personam, dai
direttori artistici ignoranti o schierati o asserviti, non riuscivano a
esprimersi. Adesso invece c’è la crisi. Non cambierà nulla, ma occupando,
dichiarando lotta dura e senza paura – ma con la diaria – e girando per circoli
e circoletti con il loro caustico e incisivo kabaret di protesta, forse è la
volta buona che qualcuno li nota. Panino e birra a fine serata sono garantiti.
Magari ci scappa pure il biglietto per il viaggio di ritorno. Questi però son
dettagli: è il pubblico che plaude a far la differenza, son quelle mani strette
a fine serata, i complimenti, i commenti su Facebook a solleticare l’ego
attoriale quel tanto che basta non solo a far dimenticare la propria condizione
di mangia m***a, ma a far credere che il pubblico la pensa così, che si è colta
la condizione esistenziale di tanti altri giovani che versano nelle stesse condizioni.
Il consenso del pubblico – soprattutto se è giovane – è il termometro della
giustezza del proprio percorso, delle proprie scelte, della propria
artisticità.
Peccato non si rendano conto che quando il metateatro –
hanno studiato nelle migliori scuole di recitazione, conoscono Shakespeare a
menadito! – è fine a se stesso, l’ironia non tocca minimamente i meccanismi
della società – funzione essenziale del teatro - ma riguarda solo chi sta in
scena in quel momento: l’attore che ironizza sul mestiere dell’attore. Valvola
di sfogo, certamente, ma niente altro, in fin dei conti, che ironia romantica,
come si scriveva in apertura. Che funziona perché ammiccante, sorretta
dall’immaginario pop che non disdegna la sfiga che diverte – anzi!. Perché di
sfiga si tratta: se voglio far l’attore e non mi prendono, la colpa è dei
soliti noti corrotti e dei soliti noti paraculi; se il mio spettacolo non lo
comprano, se non si trovano i soldi per allestire spettacoli importanti così mi
tocca girare con monologhi, inventare laboratori rastrelladenari e vendere la
mia arte in repliche scolastiche, la colpa è del sistema – corrotto e paraculo.
Adesso, però, c’è la crisi, è il momento di gettare il cuore oltre l’ostacolo.
Panino e birra vanno più che bene se il mio nome è scandito all’unisono con un
bene, bravo, bis! Vuol dire che il teatro è ancora vivo, che non tutto è
perduto.
Destino beffardo – quindi più che giusto – dell’ironia
romantica, il risultato finale è che passata la crisi tutto tornerà come prima:
i soliti noti corrotti e paraculi continueranno ad essere al loro posto, i
dinosauri vivranno una nuova giovinezza, circoli e circoletti ospiteranno le
nuove e incazzate leve, le occupazioni finiranno con la promozione dei capobastone,
la lotta dura e senza paura sarà risolta con l’aumento della diaria e il
biglietto per il viaggio di ritorno, mentre dei comici e dei loro caustici
sberleffi non rimarrà che il ricordo di un piacevole intrattenimento. A voler
fare i Buster Keaton, non ci si rende conto che si finisce con l’essere dei
Charlie Chaplin. Bravissimi, per carità, ma finché regge la sfiga.
IPSE DIXIT
LA RUBRICA DEGLI EVERGREEN
"Io ho paura solo di due cose: della morte e dei fessi"
RECINZIONI TEATRALI
Roma capitale del Teatro!
Mentre volti più o meno noti occupano i teatri, perfetti
sconosciuti si lanciano alla conquista dello stivale con nuove, sorprendenti
drammaturgie. In questo spazio ci limitiamo a segnalare le novità che
sicuramente faranno parlare di sé da qui alla stagione prossima – e, ci
auguriamo, non solo in Italia.
I primi sono i Palombella
rossa, ma non troppo. Formatisi, come sottolineato dal loro stesso nome,
alla scuola cinematografica di Nanni Moretti, hanno deciso, nonostante alcuni
cortometraggi di successo, di lasciare il cinema per il teatro. Ed ecco questo
primo piccolo ma significativo capolavoro: Io
sono un asmatico. Un palombaro esplora un fondale marino, ma il relitto
della nave che sta alle sue spalle inizia a sfaldarsi e finisce per
intrappolarlo. Il lungo monologo che il casco attutisce, facendo arrivare al
pubblico solo un amalgama di parole spezzate e rantoli, diventa il sottofondo
dei ricordi del protagonista che prendono vita sulla scena grazie alle
performances di un nutrito gruppo di personaggi: episodi di vita assolutamente
normali, che diventano ricchi e toccanti perché trasfigurati dall’impossibilità
della salvezza nell’approssimarsi della morte. Mentre il palombaro muore, altre
vite ne prendono il posto: molluschi e alghe iniziano lentamente a coprirlo:
nell’incavo delle mani, quasi una preghiera, trova rifugio un paguro.
Spettacolo ricco non solo di effetti speciali – la scena marina ricostruita con
proiezioni video incrociate e sovrapposte permette una godibilità visiva in 3D
senza bisogno degli appositi occhialini – quanto di citazioni colte: dalla
conferenza-performance di Dalì, che nel 1936 rischiò di morire soffocato in uno
scafandro da sommozzatore, alla scena del teatro di avanguardia filmata in Io sono un autarchico di Moretti, qui
resa dalle creature marine che ballano intorno ai ricordi del sommozzatore
morente. Lo scopo del collettivo drammaturgico dei Palombella rossa, ma non troppo, consiste nel «praticare un teatro
di denuncia in cui non si riesca a distinguere i due elementi. Nostro interesse
era andare al fondo delle idiosincrasie della società italiana, verificare la
perenne pericolosità dei relitti che ci governano per dimostrare che non
bisogna mai abbassare la guardia. Io sono
un asmatico punta il dito contro una società in cui i rapporti sociali sono
sempre più rarefatti e basta un nonnulla perché l’aria venga a mancare del
tutto. Il soffocamento è la morte violenta di un corpo sociale che annienta se
stesso, un’agonia la cui lentezza deve servire per lanciare un ultimo,
disperato grido d’allarme, un segnale per quanti verranno dopo. Per far sì che
le generazioni future non striscino più come molluschi accontentandosi di ciò
che si deposita sul fondo». Uno spettacolo di ampio respiro, se non fosse che
ormai siamo abituati in modo preoccupante al mal di mare.
La seconda novità proveniente dalla capitale è difficilmente
inquadrabile nelle usuali categorie del teatro. Noti con la sigla B&B, i giovani capitanati da R.
Laurieri si distinguono per l’intelligenza critica delle loro «azioni teatrali»
(da quanto non si sentivano più termini di questo genere!). L’ultima è quella
che chiude, almeno per la stagione 2011-2012, lo spettacolo itinerante On the road. Se durante tutto l’anno i B&B hanno offerto spettacoli sui
mezzi – autobus, treni, perfino aerei – che entravano e uscivano dalla
capitale, l’ultima «azione teatrale» si è consumata alla Stazione Centrale di
Milano. I passeggeri del Freccia Rossa proveniente da Roma, al momento di
scendere sono stati assaliti da un numero imprecisato di attori travestiti da
barboni che, tra uno sproloquio e l’altro, e lanciando in aria manciate di
foglie secche, chiedevano se qualcuno tra loro avesse notizie del signor Godot.
Fuori dalla stazione, davanti all’ingresso della metro, un mimo si muoveva a
scatti, al ritmo dettato da un energumeno che gridava: “vai!”, e da un tizio
mingherlino che, seviziato dall’energumeno stesso, sussurrava: “fermo”.
Purtroppo, nessuno dei presenti è riuscito a cogliere il nesso. Anzi, non pochi
hanno richiesto l’intervento degli agenti della Polfer sui binari del Freccia
Rossa. Un successo, a parere di R. Laurieri: «a noi interessa sottolineare
come, benché le strade abbiano smesso di portare a Roma, ridotta a capitale tra
le altre, non hanno smesso di portare al capitale. La gente si muove lungo le
direttive del capitale, ignorando ciò che la circonda, sia esso un barbone o un
tentativo di stupro. Mettere il teatro sulla
strada del capitale significa per noi invitare le persone a riflettere su
se stesse, a liberare lo sguardo, seppure per un attimo, dai paraocchi del
capitalismo. Il fatto che nessuno lo faccia, che nessuno si fermi a riflettere,
significa che la crisi non è tanto dei mercati quanto delle coscienze: è
radicata così a fondo che, anziché rallentare, le persone corrono più spedite
verso un obiettivo sempre più irraggiungibile».
Palombella rossa, ma
non troppo e B&B: due realtà
giovani ma capaci di leggere la realtà in modo nuovo, restituendo al teatro il
suo carattere critico e poetico: critico perché poetico. Da non sottovalutare.
Max Casagrande